Che cosa hanno in comune Petra, la città dei Nabatei in Giordania, e il Magnifico Tempio di Abu Simbel in Egitto?
È vero, sono entrambi Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco, ma c’è qualcos’altro, anzi QUALCUN altro che li unisce.
Il nome già lo conosciamo: heik/Burckhardt. Il grande scopritore svizzero di Petra, Johann Ludwig Burckhardt, nel suo viaggio che dalla Siria lo avrebbe dovuto portare a Timbuctù, qualche mese dopo aver percorso il Siq ed arrivare davanti al Tesoro di Petra, scoprì anche il tempio di Abu Simbel.
Così, per puro caso.
Essere nel posto giusto al momento giusto. Ed il viaggio molto spesso ce lo permette. Muoversi, uscire da casa (ma non in questo periodo!), esplorare il mondo, ci consente di essere proprio dove dovremmo: magari anche noi, grazie ad un viaggio abbiamo scoperto la “nostra Petra”.
Ma Sheik/Burckhardt fa di più e scopre pure il Tempio di Abu Simbel. Già una prima volta aveva camminato sulla riva est del fiume Nilo, ma sarà solo il 22 marzo 1813, dopo una giornata passata a prendere appunti e fare schizzi nel suo taccuino di disegni ed incisioni, nei pressi del villaggio di Ballana, che la Storia cambierà.
Quel ricordo sarà per sempre impresso nella sua mente, ma né lui, né tanti altri riusciranno mai a liberare le imponenti statue dalla sabbia e varcare le soglie del Tempio.
Sarà Giovanni Battista Belzoni, padovano di 38 anni, che proprio da Burckhardt aveva udito la storia del tempio nascosto, diversi anni dopo, a penetrare il tempio di Abu Simbel, dedicato a Ramses II.
Ci provò una prima volta nel settembre 1816. Il tempo aveva seminascosto la costruzione coprendola di sabbia; non bastava toglierla, ché quella ritornava. Persistendo, nei mesi successivi, gli venne un’idea: bagnare l’arenaria e innalzare palizzate, così da togliere la sabbia ai lati perché potesse essere rimossa quella del centro. Un colpo di genio.
Era il I° agosto del 1817, tutti si alzarono prima dell’alba, tanto presto che nel cielo scuro ancora brillava la luna. Un ottimo auspicio, pensarono. «Andammo al tempio di buon’ora, animati dall’idea di entrare finalmente nel sotterraneo che avevamo scoperto», scriverà Giovanni Battista Belzoni nel suo diario di viaggio, “Viaggio in Egitto e Nubia”, uno dei primi best-seller di egittologia della storia. Dopo ventidue giorni di scavi, sentiva che l’impresa era fatta e il mistero di Abu Simbel stava per essere svelato. Avevano spostato dieci metri di sabbia, lavorando col termometro che sfiorava i 50 gradi, nonostante la brezza che increspava il Nilo. Ora, nella porta del monumento voluto da Ramses II, c’era spazio perché la banda di scavatori potesse sgattaiolare nelle viscere della roccia e svelarne i segreti.
L’emozione che Belzoni e il suo gruppo poterono avere, nell’essere i primi ad entrare nel tempio chiuso da centinaia di anni, possiamo solo immaginarla. Prima di lasciare il tempio, Belzoni scolpì il suo nome su un altare con la data «AUGUST I 1817». Due anni dopo qualcuno passò di lì e ne cancellò il nome.
Oggi Giovanni Belzoni è poco conosciuto, a differenza dei grandi nomi di scopritori e archeologi dell’Ottocento (Howard Carter, scopritore della tomba di Tutankhamon, Heinrich Schliemann, scopritore della leggendaria Troia o Jean-François Champollion, colui che per primo decifrò i geroglifici), ma prima di lui l’egittologia era soltanto un’idea remota coltivata da viaggiatori coraggiosi, ma maldestri. Fu il primo ad applicare un vero metodo di scavo e le sue scoperte furono frutto di tecnica e perseveranza, così come lo sarebbero state quelle dei suoi grandi successori. L’apertura di Abu Simbel fu un’impresa sensazionale, ma non fu l’unica cosa che Belzoni fece. Detiene il primato di tombe scoperte nella Valle dei Re, fra cui il sepolcro di Sethi I, uno dei più belli. Fu il primo ad aprire la piramide di Chefren nel marzo del 1818 e il primo a intuire la Valle delle Mummie riscoperta solo venticinque anni fa.
Morì nel dicembre 1823, in Nigeria, mentre cercava di arrivare a Timbuctù.